La mia ora di ginnastica era trascorsa senza che mi fossi accorta dei movimenti che avevo fatto. Stavo dubitando di essere stata io a farli. Non ricordavo neppure più cosa avessi mangiato a pranzo. Era grigio sin dal mattino. Vuoto e alienazione erano lì lì dal degenerare in tedio e depressione, ed io dovevo andare ad un matrimonio.
Fortuna che non ero io la sposa. Non lo sono mai: è una pessima idea interpretare quella parte. Meno male che avevo già fatto la doccia. Non rimaneva che vestirsi. Tutto era pronto ai piedi del divano.
Lo spleen è una sciarpa alla gola che stringe troppo ma non strozza. È spiacevolmente pesante come piombo fuso colato dentro al cranio, ma non è la disperazione che spinge ad impiccarsi. Ha un non so che di bozzulo e, finché dura, ci risparmia dalle scempiaggini del mondo ottimista.
Pensai alla giornata della sposa eccitata, insonne, imparruccata e imbellettata per ore. A stecchetto da mesi per giungere magra al suo grande giorno, poi sarebbe tornata paffuta come era sempre stata. Mi convinsi di avere le palle per tirarmi in piedi. Infilai scarpe e vestito in pochi minuti. E mi truccai in un’altra manciata di minuti. Poco dopo suonarono al citofono. Donna! Ora di scendere sulla strada cupa.
Ci furono incensieri che oscillavano al buio, poi candelabri che tremolavano sulle tovaglie bianche. Io, in verde speranza. Domani sarebbe stato un altro giorno.

