“Prepariamoci per la prova costume”.
Il ritornello un tanto al chilo dell’essere pronte alla prova costume è sempre in circolazione. Tormentone d’ammasso, deficiente e tristemente comico.
Rassomiglia alle cravattone annodate sulla testa, ai trenini al suono di Pepepepepepe dei matrimoni e dei capodanni inossidabilmente fedeli al pacchiano infimo degli anni ’70. Prova Bikini: in fila dietro di me, batti lei, alle armi! Espressione usurata e congelata a tal punto che sembrerebbe non significare più niente.
Nel 1919 Marcel Duchamp disegnò a matita baffi e pizzetto su una riproduzione della Gioconda, aggiungendoci sotto l’iscrizione L.H.O.O.Q (Elle a chaud au cul: Lei ha caldo al culo). Con questa operazione, oltre a stravolgere il modo di fare arte, costrinse a riguardare quell’opera venerata quanto una Madonna con meno pigra e inconcludente adorazione conformistica.
Qualcosa di simile è accaduto ai poster della campagna pubblicitaria della Protein World nel 2015, quando furono sbeffeggiati a colpi di marker.

Quegli interventi sui poster che giganteggiavano nelle fermate della metro londinese mettono in discussione ciò che è sottinteso al Bikini Body. Il bikini mette in mostra: tette, pancia, culo, cosce. Non avrebbe senso la Prova Burkini perchè alabardate là dentro, a parte estremi eccessi quali anoressia ed obesità, le forme sfumano parecchio alla vista.
Il Bikini Body è il modello, il canone. Fino a pochi anni fa era: tette grosse, culo sodo, pancia piatta, tonicità; nemico pubblico numero uno la cellulite. Il modello includeva essere di etnia caucasica, alte e giovani.
A forza di proteste e rappresaglie, dato che la stragrande maggioranza delle donne non ha un Bikini Body, dato che gli anticorpi ad un certo subdolo linguaggio pubblicitario sembrano essersi sviluppati, dai social alle passerelle i modelli di corpi rappresentati e di bikini a disposizione diventano sempre più variegati e aderenti alla realtà.
Tra l’altro il Bikini Body ed alcuni dei prodotti che traina, insinuano nella mente di una che s’ingloba un frigorifero al giorno (o a notte), il pensiero che debba prenderle il pippa culo da esame ad un mese dal debutto in spiaggia e che debba darci dentro a spendere per riviste con paginate di diete tristi e strampalate, insalate scondite punitive, detox, body cleansing e miracolose pozioni dimagranti.
Se si entra in tale spirale, la logica conseguenza è che i chili che una desidera perdere restano sempre là. Oppure si provocano oscillazioni bipolari all’ago della bilancia. In ogni caso si va incontro alla mancanza di rispetto per il proprio corpo, alla totale diseducazione al cibo buono e sano e al fitness. Roba che dovrebbe essere uno stile di vita tutto l’anno, tutta la vita. Una non può sentirsi bene a seguire un tale tran tran stagionale. Bisognerebbe scendere dalla ruota da criceto e guardarla in prospettiva. Si sente meglio una davvero grassa (si, davvero grassa; curvy è troppo facile, piacevano anche in pieno periodo heroin-chic), che ci gode a mangiare come e quanto le pare e che è riuscita a sbattersene delle pressioni sociali e mediche, delle battutine e delle battutacce.
A Londra ho vissuto in una casa-cimiciaio in cui il cucinone e il salotto erano in comune. C’era una ragazza, Ania, curvy e niente palestra. Scendeva la mattina a prepararsi la colazione in canottiera e mutande, scalza. Si muoveva sinuosa, non c’era niente di studiato in lei. Era proprio così: felpata, rilassata. Sembrava una gattona, coi capelli lunghi scarmigliati e gli occhioni chiari, stupendi. A storcere il naso sulla sua grossezza messa in mostra erano più le femmine che i maschi, ma quando una volta mi mostrò delle foto di lei da bambina e si lamentò del fatto che sin da allora fosse così “grossa”, rimasi sorpresa. So che adesso è dimagrita ed insegna Yoga.
Arrivò anche una grassa ragazza napoletana. Vestiva in jeans e t-shirt larghe. Avevo un po’ d’anni meno di lei e quando vide i poster di maschioni che avevo appeso al mio angolo di stanza e i discorsi da adolescente arrapata che facevo, mi disse: “Tu non devi pensa’ con questa (additando la mia miciattola), ma con questa (additando la mia testa)”. Un pomeriggio si presenta con un suo insegnante di cui parlava da tempo. Un inglese colto, bellissimo. Ci si era messa insieme. Non l’ho mai più rivista, ma se ripenso a lei, invece dei soliti jeans e magliettone, mi piace immaginarla vestita così:

Durante l’università mi iscrissi in una palestra di quartiere. L’istruttrice era una tipa parecchio tonica, con delle cosce aerobicate alla Serena Williams. Dopo poche settimane quasi tutte le sue allieve indossavano degli short neri elasticizzati come quelli che strizzavano le sue coscione e il suo culone. Alcune si misero a tirar su pesi per rassomigliarle. Anche io. (Poi capii che non sarei MAI diventata come lei; infine sulla mia via del fitness incontrai Tracy Anderson, smisi di andare in palestra, che trovo una palla pazzesca, e mi dedicai ai suoi dvd di home fitness). Una sera accompagnai la mia istruttrice ad una mini sfilata in una boutique del centro dove le avevano chiesto di fare da modella. Il vestito che le avevano assegnato era della taglia più grossa esistente per quel modello. Ci entrava male. “Sei troppo grossa per quel vestito” le aveva detto lo stylist. Lei si spoglia nuda, gli lancia l’abito dicendo “No, è il vestito che è troppo piccolo per me“. Al diavolo sfilata.
Una con quel fisico e quelle proporzioni o una grassa, non potranno andare sempre da una sarta per vestirsi bene! Perché devo dire che la maggior parte dell’abbigliamento plus-size fa ancora piuttosto schifo. Cito il peccato e non cito i peccatori, anche perché sono parecchi. Cito invece i virtuosi:

che crea lingerie e costumi di una bellezza fuori dal coro, per tutte le taglie e senza ghettizzarsi come marca plus-size.


Ci sono alcune cose interessanti anche su Playful Promises.
eShakti dove non proprio tutto mi sconfinfera, ma svolge un servizio da sarta on line, per qualsiasi taglia e conformazione, a prezzi accessibili. Scegliendo e personalizzando i capi a proprio piacimento si possono ottenere anche look originali che calzano bene.
Et alors madames, sto bikini. No alle balze eccessive, NO alle frange, agli zebrati e alle giungle mimetiche, no al Tropicalismo.
Alla minima incertezza sul motivo, ripiegare sulle tinte unite. Eviterei anche i filetti in mezzo alle chiappe, fastidiosi peggio delle infradito e volgarotti. Su un brutto culo diventano proprio imbarazzanti. Se c’è tutta questa grande voglia di mettersi in mostra allora è meglio stare completamente nuda, preferibilmente tutta depilata (due palle co sta Dea Madre pelosa e puzzona; e due palle anche con le polemiche pro peli-contro peli, gli sfottò stronza secca/brutta cicciona da sgallinate/i. Mezzucci per far parlare di sé, per sfogare frustrazioni e invidie tra la profusione d’involontario grottesco nella spiaggia globale. I brand cavalcano la tigre e fanno il loro mestiere).
Certo, nel caso si avesse una confidenza nel proprio corpo tale da denudarsi del tutto davanti a tutti, si sarebbe costrette nelle riserve nudiste. Per conto mio sono del parere che un corpo è più bello nudo che vestito da schifo.



Preferisco i modelli atletici (Chromat docet) oppure quelli anni ’40 e ’50 che stanno bene ad ogni tipo di corpo.
Altrimenti al diavolo il bikini. Il costume intero (per cui valgono le mie regole sopra) può essere più mentalmente confortevole; almeno per me lo è stato nel mio periodo “grasso”. In vita mia ho infatti sfiorato pesi anoressici, poi sono ingrassata e poi sono ridimagrita lentamente, con PAZIENZA. In un paese come il nostro non è difficile né costoso mangiare bene. Io lo condisco con la mia pipa d’oppio: Tracy Anderson.

Proseguendo in direzione opposta al nudismo, oltre il costume intero, esiste il non spogliarsi. Il non voler far risplendere alla luce del sole le proprie cicce, le proprie smagliature, i propri cedimenti, raggrinzimenti, le proprie ossa, la propria vecchiaia, oppure la propria giovinezza, la propria folgorante bellezza e levigatezza e “perfezione”.
Il preservarsi per il proprio esclusivo sguardo o di quello di chi si ama. Credo che centri con quella roba che si chiamava privacy.




Nella copertina dell’articolo: Kung Ubu, diretto da Michael Meschke, Marionetteatern, Stockholm, 1964. Costumi e scenografie di Franciszka Themerson. Courtesy of Camden Arts Centre. Tratto dall’opera teatrale “Ubu Roi” di Alfred Jarry del 1896.
P.S. Viva la libertà sempre. Ci sono account Instagram in cui il body positivity diventa segno di impero alla fine della decadenza. Le cene di Trimalcione ci fanno un baffo:
“4 Problematic Trends I See On Body Positive Instagrams” di Suzannah Weiss