Una gioia imponente, intensa, irrefrenabile, sfuggente, è gialla.
È giallo cromo di Van Gogh. Posso ancora richiamare dentro di me la gioia potente che ho provato al Van Gogh Museum ad Amsterdam.
E ricordo pure un gruppo di ragazzi che, a giudicare dagli occhi rossi crinati, dovevano essersi attardati più di me nei coffee shop prima della visita al museo. Uno di loro, che poi mi disse essere un writer, continuava a superare la striscia sul pavimento, davanti ai quadri. Voleva osservare da vicinissimo le pennellate convulse, dense, che aveva dato Vincent. Difficile accorgersi di quelle pennellate dalle riproduzioni dei suoi dipinti. Solo che quella striscia era lì per terra per non essere oltrepassata, ed ogni volta che ciò avveniva, partiva un breve segnale acustico e compariva una hostess con una divisa stile secondino, alta due metri e del peso di cento Kg circa. Al quarto o quinto segnale acustico, seguiti da altrettanti avvertimenti a voce, la hostess si era piazzata dietro il writer, con le mani incrociate dietro, marcandolo a uomo.
Sono grata al writer per aver superato la linea e avermi fatto notare quelle pennellate emozionate. Quella è stata una visita al museo di quelle che quando esci è davvero cambiato qualcosa rispetto a quando sei entrato. L’arte deve rivelare, essere epifania.

Visita sprecata fu quella alla Tate Britain a Londra. Io e mio fratello passammo davanti a quelli che ci sembrarono tanti, troppi quadri tutti simili di William Turner, decine di tempeste marine, burrasche, calamità, vedute, e nuvole. Che palle ‘sto Turner, pensammo, sempre ‘sta noia di vedute e atmosfere sfumate a sfinimento. Facemmo le ultime stanze praticamente di corsa, impazienti di uscire e andare a impomatarci per una serata in qualche club. Che sicuro sarà stata più epifanica di quella inutile visita. Eravamo due ragazzini, che non sapevano, e andavano a vedere Turner perché si doveva fare come un compitino a casa. Male così. Bisognerebbe cambiare il modo di concepire i grandi musei, come sfilate enciclopediche di opere appese una dietro l’altra. Da tromboni gonfiati ottocenteschi. Meglio mostre monografiche, monotematiche, multimediali.
Grandissimo Turner, come lo trattammo. Il proto impressionista, ossessionato dalla luce. Ruskin definì Turner un «adoratore zoroastriano» del sole. Si dice che Turner in punto di morte affermò che Dio è il sole.

Troppo giallo consuma, come avvicinarsi troppo al sole, brucia, come una gioia troppo potente, incontrollata, che infatti non può durare a lungo. Van Gogh non lo vedrei molto adatto per una art therapy ad un bipolare in fase maniacale.
Gialla era l’immensa cappa di Rihanna al Met Ball nel 2015. Il vestito omelette, o la frittatona. Peso 25 kg, strascico lungo quasi 5 metri, oltre 50.000 ore di ricamo a mano. Ci sono voluti due anni per realizzarlo. Ed era nello studio della stilista cinese Guo Pei già da tre anni prima che lo indossasse Rihanna e diventasse virale. Così, mentre gli stilisti occidentali si davano a disegnare per la fast fashion, e riempivano le collezioni di sportswear, una cinese, proveniente da un paese (ex?) comunista, disegnava (e disegna) abiti di uno sfarzo da Celeste Impero. Divina Guo Pei.
Gialle sono le banane. In realtà le banane più deliziose della terra sono rosa e piccole; sembra di mettersi dei bocconi di paradiso in bocca ad ogni morso. Comunque, generalmente considerando, per chi non vive nelle zone equatoriali, le banane sono gialle. Infatti smescolando il web in cerca di una foto di banana gialla, è spuntata questa:

Si può fare pubblicità senza esporre blocchi di carne di femmina, senza ricorrere a squallidi doppi sensi e ammiccamenti gratuiti.
Pura essenza di creatività, era il lontano 2012, e firmava l’agenzia Armando Testa: 10 e lode.
