Un paio di décolléte di rara grazia messo in mostra dai jeans ripiegati appena sopra la caviglia di una donna con i capelli mossi, lunghi fino alle spalle, ramati, e con la bocca a cuore dipinta di rossetto. Sembrava una bambola vittoriana. Sembrava appena uscita da una scatola. Come una bambola camminava con occhi mezzi assenti davanti al figlio piccolo e al compagno.
Al lato opposto dell’incrocio che si trova al centro di un mondo creato da un demiurgo gnostico, infido stronzo, passava una gonna plissé di tulle tra il celeste e il grigio. C’erano scritte indecifrabili sulle pieghe ma la scrittura mi era familiare.
Eppoi pochi secondi dal sapore del sole dopo la pioggia, tra le persone. Pochi, ritrovati, limpidi secondi all’incrocio tra ore torbide come le pozzanghere sulle quali cerco il riflesso del cielo, tra un passo e l’altro di corsa, ora che sono trascorsi due giorni, e sto correndo.
Epperò che corsa. Avviene il raro collasso dell’io, uno, multiplo e nessuno.
Fiato perfetto, fatica assente, e se fossi un’atleta professionista avrei appena rotto un record mondiale.
